domenica 15 luglio 2007

Le farmacie dell’audio-visione

La farmacia è l’ esercizio commerciale atto a distribuire i farmaci. I farmaci sono quelle composizioni chimiche o biologiche che, alterando lo stato psicofisico dell’individuo che li assume, mutano il suo stato di salute e, più a monte, la sua situazione essenziale. Il farmaco, in poche parole, muta, temporaneamente o permanentemente, se acquisito con regolarità, l’essenza stessa di chi lo assume. La sua azione è fondamentalmente alterante. Esistono, come è noto, una infinita varietà di farmaci destinati alle più diverse funzioni. Qui ci interessano i farmaci cosiddetti psicoattivi, i quali sono tali da intervenire e mutare le disposizioni degli apparati percettori. Nello specifico tenteremo di sviluppare una riflessione di natura fenomenologia riguardo la concezione del farmaco come filtro. Per filtro intendiamo non solo e non tanto l’accezione del termine che lo interpreta come miscuglio, infuso, ma quella di filtro come maschera mutogena. Certamente, per come sappiamo già dall’interpretazione Derridiana del termine Pharmakon, una interpretazione non esclude l’altra, anzi, tutt’altro: il Pharmakon è molte cose insieme, ed è proprio questa La forza di questo termine. Il filtro in generale è quella trama ortopedica che sovrapponendosi a una visione la muta, accentuandone delle caratteristiche e nascondendone altre. Filtro è anche sinonimo infatti di setaccio, questo è quel oggetto che per mezzo di una rete, una maglia, una trama, muta la costituzione di ciò che gli passa attraverso, facendolo divenire altro. La polisemia del pharmakon è tale da non poter essere qui riportata in maniera esauriente, ma tenteremo, entrando nello specifico del nostro discorso, di far emergere i sensi in cui andiamo intendendolo. Partiamo allora ancora una volta dalla fotografia, e nella fattispecie dalle tecniche e le attrezzatura di questa: dal filtro fotografico. Non è certo questo il luogo dove impelagarsi in tecnicismi, tenteremo quindi di giungere il più velocemente possibile agli aspetti che ci interessano direttamente, quelli prettamente teorici… Tenteremo di fare teoria dalla riflessione diretta sulle pratiche… Il territorio da cui partire è certamente, a mio parere, quello della fotografia tradizionale o analogica: in questo contesto il filtro è costituito da un oggetto fisico che si comporta come protesi della macchina, quindi, come supplemento, o meglio, protesi di protesi: protesi della macchina che a sua volta è protesi dell’occhio. Tramite il filtro il contesto visivo immortalato viene mutato geneticamente, appare altro, diverso. Verrebbe da pensare che appaia come altro da se ma tenteremo di mostrare che non è esattamente così. Questo diaframma che è il filtro, o se si vuole il Pharmakon, è tale da mutare l’immagine sia cromaticamente che luminosamente, che poi è la stessa cosa. La luce e la cromia sono la materia vivente della fotografia, questi nell’installarsi nella forma generano l’evento dell’essenza dell’immagine: agendo su questa materia il filtro fa che questa si installi in una forma altra rispetto a quella a cui solitamente si costringe la macchina, cioè quella che imita il modo di vedere dell’occhio umano. Ma come vedremo meglio in seguito, non è solo questo che il filtro può fare: per ora sarà forse meglio restare al punto in cui si sa per certo che il filtro è quella protesi attraverso la quale il segnale intercettato dalla macchina viene a mutare. A ben vedere bisognerebbe intendere la macchina stessa come un filtro, cioè come un setaccio tramite il quale le immagini, i frammenti di mondo processati, divengono necessariamente altri rispetto a quanto di questi appare all’occhio umano. In realtà l’occhio stesso è anch’esso un filtro… Ci si muove in un circolo… Tentiamo di ripartire dall’occhio: questo che ho davanti io uomo lo chiamo albero, io riconosco l’albero dal suo aspetto e quindi dai suoi colori, la sua forma, se fosse diverso non lo chiamerei albero. Noi sappiamo che ogni altra specie animale vede l’albero diversamente dall’uomo, ma qui non voglio andare troppo lontano, basterà pensare al mio amico daltonico: per lui il rosso è verde, lui non vede il rosso, o meglio, seppur con difficoltà riesce a riconoscerlo, ma solo come un particolare tipo di verde, per il suo occhio, per il suo filtro o se si vuole per il suo pharmakon, il rosso non esiste. L’albero, in linea di massima, è marrone sotto e verde sopra, il marrone è colore secondario a base di rosso, per lui l’albero è tutto verde, solo di verdi diversi. Per lui Pippi calze lunghe ha i capelli verdi! La cosa interessante è ora capire che la sua non è una malformazione ma una diversità e soprattutto che Pippi ha si i capelli rossi, ma li ha anche verdi, perché non li ha di alcun colore, perché ogni individuo percepisce diversamente ma nessuno oggettivamente. Gadamer scriveva “ogni conoscere è conoscere altrimenti”, noi oggi diremo che vedere è un modo del conoscere ma che ogni vedere è vedere altrimenti, è quindi vedere filtrato. Questo vale per ogni dispositivo di visione e per tutti i dispositivi di percezione in generale. Si potrebbe dunque scrivere che ogni udire è udire altrimenti, ogni tastare è tastare altrimenti ecc. ecc. ma non credo ce ne sia bisogno. Torniamo ora alle macchine e da quelle meccaniche ed analogiche andiamo a quelle elettroniche, poi andremo a quelle digitali… La macchina simbolo dell’audiovisione elettronica è senza dubbio la televisione, essa è certamente un filtro, un pharmakon in molti sensi e a più livelli. Partiamo, in linea con il discorso, dal livello più prettamente fenomenologico: le telecamere che raccolgono le immagini che la televisione ci propone sono a loro volta un filtro o se si vuole un pharmakon, di per se vedrebbero altrimenti da noi tanto che, come le macchine fotografiche, vanno regolate in un certo modo per mostrarci immagini che si avvicinino il più possibile a quella che per noi e solo per noi è la realtà. Queste regolazioni sono a loro volta, già di per se un altro filtro. Nella fase detta di post-produzione è possibile infine aggiungere altri, ulteriori filtri tali da mutare ancora una volta le immagini raccolte e proporle all’ultimo anello della catena, che poi è anche il primo, quel filtro che è l’occhio, che vede e riconosce. Cosa riconosca e soprattutto cosa sia in verità ciò che riconosce, specie nel caso della tv resta davvero, nella sua essenza, un enigma, probabilmente l’enigma fondamentale. Se dalla televisione in broadcast volgiamo lo sguardo verso la videoarte, o meglio verso le arti dell’audiovisione elettronica, nella loro origine e nella loro essenza, potremo notare la convivenza e la contrapposizione più o meno frontale delle due farmacie da cui il titolo di questo brano. Due farmacie? In che senso? Cosa significa? Come sappiamo da “La farmacia di Platone” il Pharmakon è qualcosa di fondamentalmente ambiguo, è l’essenza stessa dell’alterità, è allo stesso tempo fonte di ansia e di tranquillità, è il sacro e il maledetto, è filtro esponente e occultante allo stesso tempo. Il Pharmakon è nella sua essenza liquido in cui gli opposti passano facilmente dall’uno all’altro… Sappiamo che le droghe ed i farmaci in generale hanno oltre alle loro qualità curative o psicoattive, contemporaneamente delle controindicazioni, sappiamo che somministrarli non è cosa da tutti, infatti per farlo bisogna disporre di determinate conoscenze. Esistono farmaci per scacciare la morte e altri per darla ma in entrambi i casi si tratta di mutazione. Il Pharmakon è agente mutogeno, il filtro è agente mutogeno, l’immagine, la verità e la vita sono eventi mutanti. Ma sarà forse meglio tornare alle due farmacie, queste farmacie producono e distribuiscono farmaci, i farmaci dell’audiovisione sono filtri. Tutto ciò che viene catturato e trasmesso dai dispositivi audiovisivi meccanici e organici è necessariamente qualcosa di filtrato, mutato, alterato. La differenza sostanziale tra le due farmacie o se si vuole “filtrerie” sta nella relazione che queste intrattengono con quella che i greci chiamavano mimesis. La televisione in broadcast somministra alle audio-visioni un pharmakon mimetico, una serie di filtri tale da modificarle in modo che imitino le percezioni umane, in modo quindi da favorire ed assecondare l’impressione che queste detengano un qualche valore di verità. Le arti dell’audiovisione (nella loro essenza), al contrario, fin dal loro esordio hanno tentato di far emergere, di mostrare le altre modalità di percezione e utilizzando i filtri, e la loro potenza farmacologia, in modo da liberare quindi le macchine dalla schiavitù mimetica… Dentro a questa differenza ha luogo una lotta fondamentale in cui ne va, ancora una volta, della verità. Come abbiamo chiarito, in entrambi i casi si tratta di usare filtri e quindi di mutare, di mostrare un che di mutato, soprattutto perché, come abbiamo capito, non potrebbe esistere cosa mostrata e percepita, che non sia, nello stesso tempo, mutata, filtrata. La differenza sta nel tipo di filtri e ancor più, nel modo e nelle intenzioni con cui si filtra. L’alterazione del filtro broadcast muta l’immagine ed il suono per proporceli il più possibile tali e quali a come sono per noi, ammesso che non abbiamo assunto una qualche droga o filtro che ce li mostri altrimenti. In televisione vediamo l’immagine lucida della media statistica della lucidità, si potrebbe pensare che qui non vi sia filtro, ma proprio per questo, perché filtro non dichiarato, anzi progettato per nascondersi come tale, può essere molto pericoloso e lo è. Tentiamo di capire pensando alle trasmissioni audiovisive come a delle droghe psicoattive: queste, come è noto, alterando il nostro stato mentale, mutano le nostre percezioni, predisponendoci a conoscere altrimenti, sono dunque pharmakon, filtro… Se la droga si dichiara come tale, come ciò che è, un alteratore, lascia la possibilità a chi lo assume, di prepararsi adeguatamente: questi si prepara per un viaggio in cui percepire le cose del modo in modo extraquotidiano, per scoprirle nelle loro forme nascoste. Se invece il filtro omette di dichiararsi come tale imitando la percezione umana, sarà consequenziale il rischio di scambiare la configurazione percettiva per un qualcosa di non filtrato. Ma, come abbiamo detto, ogni cosa appaia, anche questa qui di fronte ai miei occhi non può che essere un qualcosa che giunge ad esporsi passando attraverso il filtro del mio occhio e del mio cervello… Imitare la configurazione standard delle modalità di percezione umana, vuol dire quindi mentire riguardo all’essenza dell’immagine, anzi è l’unico modo che l’immagine ha di mentire. Solo quando imita l’immagine mente. La televisione in broadcast, questa droga non dichiarata, somministrata quotidianamente a centinaia di milioni di persone, è lo strumento più potente a disposizione di quegli stregoni che, proponendocela come la semplice realtà, catturano le menti deboli in un mondo fasullo, costruito a tavolino. Approfondiremo tutto ciò altrove, questo è il luogo dove si tenta di far emergere la differenza… L’altro farmaco, la droga psicotropa, che inversamente, sfonda i limiti della nostra percezione e quindi della nostra conoscenza, è il trompe-l’oeil, il filtro dichiaratesi come tale, come alterante, quel diaframma che mostra il diverso come diverso. Questo filtro, o se si vuole questo Pharmakon, questa droga, mostrandosi come agente alterante, ci mostra, es-pone la verità sulle cose e sulla conoscenza. Questo Pharmakon elettronico, la più forte specie di antidoto al Pharmakon detto broadcast sono le arti elettronico-digitali dell’audiovisione. In questo senso vanno intesi i lavori di grandi pionieri come Paik, Vostell, i Vasulka, Cahen e il primo Viola… In questi lavori emergono modalità di percezione che accrescono il mondo e portano l’uomo finalmente oltre se stesso, al di là dell’antropocentrismo coatto dal quale non riesce ancora a liberarsi. L’utilizzo di filtri e di effetti di montaggio, la bassa fedeltà di definizione e il sonoro, completamente ri-valutato sono da intendersi in questo senso. Il suono, liberato anch’esso dall’obbligo mimetico, non più costretto a copiare ne a simulare, acquisisce un potere, in relazione alle immagini, il quale non aveva mai avuto. E’ un ulteriore filtro, forse il più potente dei filtri psicotropi: la particolarità del suono così inteso è che agisce come filtro visivo. Se nella tradizione cinematografica era quasi sempre costretto ad una dimensione narrativa, ad accompagnare le scene tramite l’omologazione alla trama, essendo quindi un gregario, liberato da questa corrispondenza, porta le immagini oltre il loro limite, le colorisce di una vibrazione ulteriore, gli dona un’anima vibratile, che le muta nell’essenza trasportandole in una dimensione che non potrebbero raggiungere altrimenti. Non è certo un caso infatti che Paik fosse un musicista sperimentale, che Cahen fosse stato allievo di Shaffer, che Steina Vasulka fosse una violinista ecc.ecc.

Mondi elettronici... Verità e materia nell'audiovisione d'arte

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